Una Chiesa missionaria

In occasione della Giornata Missionaria Mondiale riportiamo la testimonianza diretta di Padre Daniele Moschetti, che già lo scorso anno – durante un suo passaggio in Italia - ci ha offerto un sguardo "Dall’altra parte del Mondo".

Questa volta mi parla direttamente da Juba (Sud Sudan), in collegamento skype, in una tarda serata di ottobre, nel bel mezzo della stagione delle piogge, a circa 30 ° C.

Padre Daniele sta chiudendo il suo mandato di Superiore Provinciale dei Missionari Comboniani in Sud Sudan – lascerà il paese al termine del 2016 – e sta programmando, per il 2017, 850 km di pellegrinaggio a piedi verso Santiago di Compostela. Una camminata di preghiera, meditazione e silenzio per catturare energia nuova da impiegare nella nuova esperienza che lo attende dopo questo lungo periodo in Africa. 

 

Qual è in questo momento la situazione in Sud Sudan?

 

Da quasi tre anni imperversa una guerra civile che ha di fatto devastato il paese. Numerosi gruppi ribelli, anche sconnessi fra di loro, combattono contro l’esercito con l’obiettivo di destabilizzare il governo in carica. Il risultato è la distruzione totale: edifici, strade, scuole. Ma c’è di più: viene destrutturato il cuore del tessuto sociale. Il paese risulta paralizzato dal terrore, indebolito e terribilmente ferito dalla continua perdita di vite umane; l’economia è al collasso e con essa frana ogni premessa di ricostruzione.

Un paese in guerra, ancorché popolato dal 70% di giovani sotto i 25 anni, a guardarlo così è un paese senza futuro.

Nella manovra economica varata la scorsa settimana, dei 23 miliardi di dollari messi a budget per il 2017, il 50% - quasi 12 miliardi di dollari - è destinato alle azioni militari e solo il 2-3% è riservato all’educazione e alla sanità. Si tratta di una cifra ridicola, ulteriormente erosa da un sistema corrotto che impoverisce tutto l’impianto sociale. Che futuro possono avere i bambini e i giovani, senza educazione? La prospettiva militare, essere arruolati dall’esercito o dai gruppi ribelli, è l’unica possibile. Non ci sono alternative, se non la fuga.

Si calcola che 176.000 persone siano fuggite dal territorio di Juba negli ultimi mesi. E questo segnale, oltre che essere indicazione incontrovertibile della insostenibilità delle condizioni di vita, è un ulteriore presagio negativo del futuro del Paese, che perde ogni possibilità di costruire coesione sociale ed emancipazione culturale. 

Un’intera nazione viene consegnata nelle mani della gun class, la casta dei signori della guerra.

Essi, pur appartenendo a schieramenti diversi, coltivano comuni interessi economici ed egemonici: la guerra, l’instabilità politica, la corruzione, il degrado sociale sono gli elementi strategici che consentono loro di ampliare il loro potere e di perseguire maggiore ricchezza. E’ così che pochi, spietati personaggi, diventano i padroni del territorio, delle sue ricchezze, del suo patrimonio materiale, naturale e umano. Un patrimonio che diventa merce di scambio, in un mercato mondiale senza scrupoli, che trova complicità in un occidente miope, disposto a tutto pur di “fare affari”. La miopia sta tutta nell’inganno di ignorare il dramma di una forbice fra ricchi e poveri sempre più ampia, quando si è dalla parte più fortunata. Ma proprio l’esplosione del fenomeno migratorio, che si manifesta in forme sempre meno controllabili e in episodi anche fortemente minacciosi, dimostra quanto l’indifferenza cieca perpetuata per decenni, si stia inesorabilmente rivelando un pericoloso boomerang capace di destabilizzare l’intero occidente “emancipato”.

juba: Good Shepherd Peace Center
juba: Good Shepherd Peace Center

Detta così, si consolida la prospettiva di un hopeless country, un paese senza speranza...

 

Assolutamente no. C’è tanta gente che non intende arrendersi e che profonde energia e impegno per costruire un futuro diverso.

Ne abbiamo avuto la prova di recente con l’apertura del Good Shepherd Peace Center (Centro della Pace del Buon Pastore). Si tratta di un Centro di formazione umana e spirituale costruito a Kit, una località che dista 15 km dalla città di Juba, nato come attuazione di un progetto che punta alla formazione umana e spirituale della persona, alla promozione della pace e all’avvio di percorsi di trauma healing (superamento dei traumi conseguenti alla guerra, alla violenza, al lutto). Sono tutti elementi indispensabili per avviare un processo di risanamento sociale, percorsi di riconciliazione e integrazione tra etnie diverse.  Questo centro, promosso dall’Associazione dei Superiori Religiosi del Sud Sudan (RSASS), è partito e grazie alla cooperazione di tanti uomini e donne di buona volontà, è diventato realtà: religiosi e laici cattolici e di altre Chiese cristiane, cooperanti delle ONG, fedeli di altre confessioni religiose. Un lavoro ecumenico, un sogno trasformato in realtà, un segno di speranza per tutti, aperto a tutti: cristiani e non, adulti, giovani, bambini...anche ai militari.

 

Alla vigilia della Giornata Missionaria Mondiale, cosa suggerisci a noi, tuoi connazionali, perché questo giorno acquisti davvero un senso e non si riduca ad essere una colorata giornata di folclore religioso?

 

Suggerisco di cogliere l’occasione per riscoprire l’identità missionaria acquisita nel Battesimo, per risvegliare la nostra coscienza missionaria che non può accontentarsi di gioire delle opere missionarie o magari di sostenere i missionari sparsi nel mondo. È molto, molto di più.

È coscienza che mi apre alla volontà di Dio, mi richiama al mio impegno quotidiano di moglie, marito, madre, figlio, di insegnante, di impiegato, di avvocato…all’interno della mia famiglia, del mio lavoro, del mio territorio.

È coscienza che mi spinge ad uscire dal mio egoismo, ad andare incontro all’altro; mi richiama ad un impegno operoso, coerente e rispettoso nella società, ad un senso di responsabilità nella ricerca del bene comune, alla fiducia operosa di migliorare il mondo che mi circonda con i miei piccoli gesti compiuti insieme ad altri.

Vivere la giornata missionaria è essere disposti a spostare l’attenzione da se stessi all’altro, lasciarsi interpellare dalla solitudine e dal disagio di chi anche vive nel lusso e sembra non aver bisogno di nulla.

È sforzarsi di leggere la vita tua e di chi ti vive accanto con gli occhi della fede, con la saggezza del Vangelo che squarcia il velo della superficialità, della mondanità, della esteriorità e ti spinge ad andare oltre, a cercare l’essenziale.

Tutto questo è rivoluzione che ringiovanisce la Chiesa, anche concretamente. Perché una comunità credibile, una testimonianza autentica, hanno sui giovani una forza attrattiva molto più efficace di tante omelie, discorsi, lezioni di catechismo e gite fuori porta. I nostri giovani contestano l’ipocrisia, fuggono i maestri, ma non rimangono indifferenti di fronte al bene, cercano esempi di coerenza, amano i testimoni veri.

Il nostro impegno, come persone e come comunità, può davvero dare un contributo importante a questo mondo, può generare un cambiamento. Questa è la forza dell’amore.

La missionarietà richiama tutta la Chiesa a non rimanere seduti nella sacramentalizzazione della vita delle parrocchie e dei vari gruppi. La coscienza missionaria spinge ad uscire, ad incontrare, e tentare strade e percorsi nuovi, chiede di rischiare, se necessario di incassare critiche, di suscitare perplessità, spinge a coinvolgersi e a pagare di persona...io penso che solo così la Chiesa in Italia può sopravvivere a questa società.

 

Dandora - fonte BBC
Dandora - fonte BBC

Se dovessi condividere una esperienza, un episodio importante della tua vita di missionario…

 

Vi parlerei di Makeo, un uomo incontrato a Korogocho, la baraccopoli di Nairobi, in Kenia dove ho vissuto per 7 anni. In quegli anni, agli inizi del 1990, il leader della comunità era ancora Padre Alex Zanotelli, grande missionario ed amico, ed io ero uno studente di teologia prima di diventare prete.

Makeo era un alcolista, viveva di espedienti, nella miseria e nel degrado. Aveva tanti figli e una moglie, era uno scavenger, un raccoglitore di spazzatura nella vicina e più grande discarica di Nairobi, chiamata Dandora.

Io ero semplicemente un suo amico. Lui faceva parte della nostra piccola comunità cristiana, quella della discarica. Nella nostra comunità c’erano i poveri, i ladri, le prostitute…

Arrivato per me il momento dei Voti perpetui, ho chiesto di poterli vivere a Korogocho, con la gente di là, nella Chiesa di St John che si trova proprio vicino alla grande, tristemente famosa discarica.

 Quel giorno io ero già pronto, con indosso la mia veste bianca, di fronte all’altare, insieme ad altri due miei compagni di teologia comboniani. Makeo è arrivato in chiesa ed è subito venuto davanti, particolarmente ubriaco, ma non con le mani vuote. Si è presentato con un sacco di patate, che aveva inizialmente comprato per la sua famiglia, per sfamare i suoi tanti figli, ma ha voluto regalare a me dicendomi, nonostante i fumi dell’alcol: «Daniele questo è tutto quello che ho, ma te lo do con grande affetto e amore. Tu sei un amico e compagno. Ti sono vicino in questa grande festa».  

Quelle patate erano il segno della nostra amicizia, le ho accettate con tanta difficoltà, perché sapevo che avrei privato i bambini del cibo quella sera.

Ma sapevo che per Makeo era molto importante mostrarmi il suo grande affetto, la sua amicizia. Era importante ricevere un dono dalle sue mani. Era l’obolo della vedova.

Quel giorno ho avuto prova che il Vangelo può essere vissuto, Makeo ha dato tutto ciò che aveva, tutto quanto aveva per vivere.

Anche nel deserto, fiorisce sempre la speranza!

 

Intervista di Giulia Sergiacomo

Download
23 ottobre 2016 - Giornata Missionaria Mondiale - scarica l'intervista
20161022 intervista.pdf
Documento Adobe Acrobat 190.5 KB