Famiglia e santità

La manifestazione del 20 giugno è passata. Qualche utile riflessione per il dopo:

Non è stato, e non voleva essere un “family day”; è fin troppo evidente che la Gerarchia ecclesiastica, e tanto più il mondo politico, sono del tutto estranei alla preparazione e alla organizzazione dell’evento. È stata un successo: la cifra del milione sparata dal palco sarà probabilmente da ridimensionare, secondo la Questura eravamo 400.000: un bel numero comunque, e poi, soprattutto, se eravamo in tre, ci andavamo in tre. 

Non è stata una manifestazione confessionale, ma una manifestazione politica, nel senso pieno della parola: aveva per oggetto il contrasto a tre disegni di legge. Se (almeno) quattrocentomila persone si muovono per dire la loro su una legge, fanno politica, anche in assenza di sigle di partito.

È stata un successo, ma come cittadini sarà bene mantenersi freddi e vigili: la strada è tuttora in salita, l’opera di disinformazione è massiccia e implacabile, il mondo politico, per dirla tutta, ha altro da pensare.

Piuttosto che adagiarsi sugli allori di una partecipazione di massa, che c’è stata, la consapevolezza di essere tanti può e deve aiutarci in una opera anche più necessaria e urgente del contrasto ai disegni di legge tesi a destrutturare la famiglia. Dico di meditare, confortati dalla sperimentata certezza di non essere soli, su quel supplemento di responsabilità che i tempi attuali impongono alla famiglia in genere e a quella cristiana in particolare.


Non siamo più in regime di “cristianità”, più e più volte lo abbiamo ricordato, e facciamolo ancora una volta. Non siamo più cioè in un corpo sociale in cui la traduzione istituzionale dei valori di fondo del cristianesimo godeva di un consenso larghissimo, quasi unanime; magari largamente ipocrita, ma pure potente. Che piaccia o no, così non è più.


La trasmissione quindi dell’insieme di valori che discendono dalla fede cristiana non potrà, non può darsi per scontata, e la delega che siamo stati per diverse generazioni abituati a dare alle strutture pubbliche, e specialmente alla scuola, non può più darsi a cuor leggero. La famiglia è quindi chiamata alla vigilanza cristiana da esercitarsi con maggiore attenzione di prima.


La formazione delle coscienze, questo è il compito della famiglia: lo è sempre stato e ancor più lo è nel presente e lo sarà nel futuro. La scuola vera siamo noi; la scuola di socialità, più ancora, la scuola di umanità. Chi si prepara al matrimonio cristiano deve essere chiamato con fraterna urgenza alla serietà del compito che lo aspetta, non soltanto in relazione alla propria individuale crescita nel progetto di amore stabilito da Dio, ma anche in quello proprio della dimensione sociale, e si vorrebbe dire istituzionale in cui è chiamato ad operare.


Al tempo stesso, sarebbe un grave errore interpretare questo compito – come purtroppo qualcuno fa, fra noi cristiani – come l’erezione di un muro a difesa di una cittadella che si vuole rendere inespugnabile. In realtà, si tratta esattamente del contrario, di “uscire”: di prendersi “cura della casa comune”.

E forse mai come in questi anni, la testimonianza di fede, il suo “depositum” è, insieme, salvaguardia e sviluppo del progresso umano. Laicamente, storicamente, si potrebbe dire che sulle spalle dei fedeli riposa il destino dell’uomo, che viene ora minacciato da una potente coalizione di “disvalori”.


Come niente trionfalismi per il 20 giugno, così neanche apocalittici scenari di guerra totale, o eccessivi appelli retorici del resto dannosi alla causa che si intende sostenere. Non si può tuttavia non osservare che proprio mentre ha luogo nel mondo sviluppato questo “attacco all’uomo” persino nella sua essenza psicologica e fisica, proprio nello stesso tempo il “relativismo pratico” di cui ci parla il Papa al capitolo terzo della sua ultima enciclica (122 e segg.) rischia di distruggere insieme tutta la nostra casa comune, quella umana come quella naturale.


Si diceva della serietà del compito che ci aspetta come famiglie: piace ricordare come il Fondatore non è che, in tema di testimonianza, l’abbia mandata a dire.

Ecco alcune sue parole: “Essere questo segno, questo gruppo di uomini che riesce a raccogliere attorno a sé quanti hanno ancora amore di Dio” (e sia lecito aggiungere: quanti quindi hanno ancora amore dell’uomo).

“Lo Spirito è pronto ad agire su di noi per farci diventare, in questo tempo difficile, testimoni di Cristo, ma… È necessario il coraggio di affrontare, molte volte, il rischio dell’insuccesso. Il coraggio del rischio! Coraggio fondato sulla preghiera, sulla perseveranza e sull’ascesi, parola che oggi torna ad imporsi come esigenza di sequela di Cristo: Se qualcuno mi vuole seguire prenda la sua croce” (Mt 16, 24).


Alle parole di Padre Guglielmo, e in tema di famiglia, ci piace accostare qualcosa che leggiamo sul giornale di oggi.

A Torino, rispondendo ad alcune domande dei giovani, il Santo Padre non l’ha mandata a dire nemmeno lui: “Non vorrei fare il moralista ma dirvi una parola impopolare: siate casti. … questa virtù è molto difficile in un mondo edonista. Ma l’amore non usa le persone per il proprio piacere… Bisogna fare. E fare controcorrente”.

 

Alberto Hermanin