Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario

"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario". 

Le parole di Primo Levi sono ancora un monito. Il dramma della Shoah non deve essere dimenticato, deve essere narrato alle nuove generazioni.

I nostri giovani devono essere consapevoli  dell'orrore di cui l'uomo può essere capace quando cade prigioniero di se stesso in un delirio di onnipotenza che può diventare contagioso e assumere una dimensione tragicamente collettiva.

Questo il senso del Giorno della Memoria, celebrato ogni anno nell'anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, avvenuto il 27 gennaio 1945, da parte delle truppe sovietiche.

Fabio Colagrande, per Radio Vaticana, ha intervistato un ebreo deportato e sopravvissuto. Alberto Mieli, dopo 71 anni ha deciso di raccontarsi nel libro affidato alla penna della nipote Ester: Eravamo ebrei. Questa era la nostra unica colpa (Marsilio editore)

Sono diversi anni che vado nelle scuole, nelle università e negli atenei a raccontare la verità di quello che succedeva nei lager. Però i particolari li racconto adesso…

 

Perché ha deciso di raccontare?

Prima di tutto per dovere verso quei compagni che non sono ritornati a casa; e poi perché è un dovere raccontare ai giovani quello che è successo in quei lager e ciò che i miei occhi hanno dovuto vedere.

 

Lei racconta, più volte, che era impossibile immaginare l’orrore che avreste trovato nei lager e poi, per molto tempo, è stato impossibile raccontarlo…

Ho assistito a episodi che nessuna mente umana può immaginare! Uno in particolare, lo racconto ai ragazzi quando vado a testimoniare: chi è che non si è mai intenerito davanti a un cucciolo di un cane, a un micino. Abbiamo paura pure di toccarlo per non fargli del male: invece loro, i nazisti, prendevano bambini di 6-7 mesi, che balbettavano dal freddo; li prendevano per i piedini, come quando escono dalla pancia della madre; li facevano dondolare 6-7 volte e poi con violenza li tiravano in alto e sparavano, come se fossero dei volatili…

 

Nel suo libro lei dice che i giovani devono sapere, devono conoscere anche questi episodi crudeli e orribili: perché?

I giovani devono sapere! E’ giusto che sappiano, perché non c’è stato solo quell’episodio: ce ne sono stati a centinaia… Uccidere un deportato era una cosa normalissima. Non era una cosa anormale: per loro, specialmente la domenica, quando si ubriacavano, uccidere 10-20 deportati così, per divertimento, era una cosa normale.

 

Ci sono degli episodi di solidarietà che le sono rimasti impressi: persone che pur in quell’inferno facevano del bene, cercavano di fare del bene?

Io sono uno esempio di quelli: quando mi hanno liberato, il cervello è andato subito a pensare alla famiglia e mi domandavo: “Che fine avranno fatto? Si saranno salvati?”… E il Signore mi ha premiato: 8 inquilini hanno preso i miei 8 fratelli: ogni inquilino del palazzo ha preso un mio fratello e lo curava, gli dava da mangiare, lo lavava, come se fosse un figlio.

 

Signor Mieli, dopo Auschwitz, come è riuscito a mantenere la fede e anche la fede, in qualche modo, nell’umanità?

Anche io ho peccato nel lager: quante volte ho detto: “Ma dov’è questo Signore? Dov’è questo Padre Eterno che permette tutti questi eccidi?”. Poi  magari ritornavo di nuovo a pregarlo affinché salvasse tutta la mia famiglia… Un giorno Papa Wojtyla mi domandò: “Figliolo, come hai fatto a salvarti da quell’inferno?”. Io lo guardai e gli dissi: “Santità, a questa domanda non so rispondere! Però so una cosa certa: lei è una persona molto più colta di me, molto più istruita, molto più brava e perciò gli sta molto più vicino lei che non io: dovrebbe domandarlo al Signore...”.

 

Fonte: www.radiovaticana.va