Da Bruxelles a Parigi: solo l'Europa ci può salvare

Solo una maggiore integrazione tra i Paesi dell'Unione può sconfiggere la jihad islamica a casa nostra. Questa tesi apparirà indigeribile a chi crede che chiudere i confini, tapparsi in casa e abbandonare Bruxelles sia l'unica via d'uscita possibile. Io penso esattamente il contrario.

 

Sono convinto che far vincere la logica degli Stati nazionali oggi equivalga al suicidio, alla resa di fronte ai terroristi così come di fronte ai drammi che premono alle nostre frontiere.

 Bruxelles, Gare du Midi, ore 9 di ieri mattina: una folla preme all'ingresso della stazione, sulla porta 8 militari controllano soltanto a vista borse, zaini e pacchetti. Per salire sul Thalys, il treno ad alta velocità che va in Francia, basta mostrare il biglietto ad un anziano capotreno che aspetta in cima alla scala insieme ad una giovanissima assistente.

Parigi, Gare du Nord, ore 11: sulla banchina d'arrivo 18 soldati in assetto da guerra controllano i passeggeri che scendono dai vagoni provenienti dal Belgio. In testa al binario una folla ordinata aspetta di salire, ma prima dovrà passare attraverso i metal detector come in aeroporto. Possiamo immaginare comportamenti così diversi nello spazio di un viaggio durato un'ora e 22 minuti?

Possiamo immaginare di difenderci se ogni Paese attua una sua originale politica di sicurezza? Se le maglie della rete che dovrebbe proteggere le nostre vite sono strettissime o larghissime per decisione di un prefetto, di un ministro o di un singolo Parlamento? Se le informazioni su chi parte per la Siria e la Libia o su chi torna a casa dopo aver preso parte alla "guerra santa" non vengono scambiate in tempo reale? Se non si condividono impronte digitali, dna o più semplicemente targhe di automobili, video e fotografie?

Perché la partita che deciderà della vita che vivremo in questo continente dipenderà dalla capacità di scambiarci informazioni, di prevenire su larga scala, senza militarizzare ogni angolo delle nostre città. Senza smettere di viaggiare liberamente e di lavorare e studiare in ogni angolo del continente.

Dopo le bombe di Bruxelles perfino il ministro dell'Interno inglese Theresa May ha lanciato l'allarme sui rischi per la sicurezza che correrebbe la Gran Bretagna se col referendum del prossimo 23 giugno decidesse di lasciare l'Unione europea. "Verrebbero messe in pericolo - ha sottolineato - informazioni essenziali che riceviamo dai partner europei e verrebbe minacciata la cattura dei criminali come l'estradizione dei sospetti".

Un altro esempio chiave: il governo belga ha pronto un disegno di legge ad hoc per chi ha partecipato alla jihad: prevede l'arresto o l'obbligo di portare il braccialetto elettronico. Ma farlo in un solo Paese non avrebbe alcun senso, per aggirarlo basterebbe che i combattenti islamici belgi si fermassero a Milano o che quelli francesi trovassero rifugio a Berlino. Così come nulla avrà senso se non cominceranno davvero a funzionare procedure di identificazione comuni e un database integrato.

Si può ritenere questa ipotesi dell'arresto o del braccialetto una violazione di diritti, visto che gli jihadisti di ritorno non hanno commesso reati in Europa, ma proprio un tema così delicato di libertà civili (in cui dobbiamo mettere sull'altro piatto della bilancia il diritto alla sicurezza e il diritto di andare in metropolitana senza rischiare la vita) meriterebbe un serio dibattito europeo. Magari sottraendo qualche ora all'infinita discussione sulle assicurazioni dei depositi bancari o sull'acquisto di titoli di Stato da parte della Bce.

La nostra disunità e la mancanza di una cooperazione profonda sono il rischio maggiore. Cosa sarebbe successo se negli Stati Uniti la lotta al terrorismo fosse stata appannaggio dei singoli Stati e se chi si radicalizzava in California avesse avuto la garanzia di rifarsi una verginità semplicemente passando in Arizona? Se non ci fossero state strutture federali capaci di incrociare le conoscenze? Proprio quelle strutture che per divisioni, sciatteria e frazionamento non furono capaci di intuire ed evitare l'11 settembre.

E non possiamo nemmeno coltivare l'illusione di sigillare le frontiere esterne e di alzare nuovi confini interni, perché il pericolo non arriva da uomini partiti dall'Arabia Saudita o dal Pakistan ma ce l'abbiamo in casa, è nato e cresciuto nelle periferie o nei ghetti delle nostre città. Chiudere le porte non significherebbe lasciare fuori i terroristi ma tenerli dentro.

Le indagini in corso in queste ore, la ricostruzione della dinamica degli attentati e l'identificazione dei terroristi ci confermano quanto sia micidiale non essere uniti: il Belgio ha pagato caro le divisioni tra i diversi ceppi linguistici (francese, olandese e tedesco). Divisioni che hanno impedito le collaborazioni, hanno fatto alzare muri, diffidenze e gelosie. Una nazione di poco più di 11 milioni di abitanti che oltre ai due rami del Parlamento nazionale ha tre Parlamenti regionali (Fiandre, Vallonia e Bruxelles), ognuno dei quali legifera non solo su problemi locali ma in tutto l'ambito economico e politico. Perfino sulle relazioni internazionali. Tanto che il famoso e molto discusso Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP) tra Europa e Stati Uniti, una volta firmato dalla Commissione europea, avrebbe bisogno della ratifica di ognuno dei 28 Paesi che formano l'Unione ma con il voto di 35 Parlamenti. Sì perché in 26 nazioni ci sarà il voto del Parlamento, in Germania due e nel solo caso del Belgio sarà necessaria l'approvazione da parte di ben sette Parlamenti diversi...

All'aeroporto di Bruxelles e alla fermata della metropolitana di Maelbeek non è stato colpito solo il cuore dell'Europa ma è stato sfidato il nostro futuro e ci è stata posta una domanda fondamentale: vogliamo dividerci e fare la fine del Belgio?

 

Mario Calabresi - Repubblica.it