Nel confessionale con la carità

Si è oggi tentati di pensare, dopo certi incontri con alcuni sacerdoti, alle confessioni a gettoniera, quando poi non succede di peggio, per esempio: Da quanto tempo si è confessato? Da quindici giorni. Ma allora perché torna così presto? Basta un atto di dolore!

 

Scena questa non ipotetica, che sottende una certa concezione infiltratasi tra alcuni membri della Chiesa dopo il Vaticano II.

           

E mi ricorda, questo, l’emozione e la paura nel dare le prime assoluzioni. Per la gente il confessare può apparire come una cosa semplice e normale. E così non è. Appena qualche episodio che fa comprendere la drammaticità che, non di rado, accompagna il rimanere in confessionale.

 

Ordinato sacerdote a marzo, per S. Giuseppe, nella festa di Pentecoste fui mandato al Divino Amore ad ascoltare le confessioni delle migliaia di persone accorse al Santuario e,  malgrado fossimo molti sacerdoti, mi trovai dinanzi a una coda di gente che non finiva più.  Che pena dover dare l’assoluzione in fretta, con il rimorso continuo di una non completezza dell’esame!

 

In altra occasione volli essere più preciso. Abbondavo, per scrupolo interiore, nelle domande, quando sentii bussare alla porta della stanzetta dove confessavo gli uomini. Un sacerdote, gentilmente, mi pregò di passare alla confessione dei piccoli giacché la coda degli uomini che aspettava fuori della porta aumentava sempre più!

 

E che dire poi della pena e anche delle notti insonni nel ripensare a fatti gravi ascoltati in confessione? No, non è semplice confessare. E se questo si fa con spirito di carità soprannaturale comporta un coinvolgimento totale di anima e corpo che è partecipazione alla donazione immolativa di Cristo.

 

 

                                                                  da “Il Massimalismo”, n. 16, marzo-aprile 1990