Storia di una Vocazione

Sognavo, da bimbo, imprese più grandi di me che mi portavano nel regno fatato di regine, imperatori e pirati. Più tardi fu l’impresa di Teresa la grande, che fuggì per convertire i Mori, che mi attrasse. Più tardi ancora l’esempio della piccola carmelitana di Lisieux avvinse il mio animo giovanile: soffrire come lei, offrire come lei, per potere, come lei, morire in un’ estasi di amore per la salvezza delle anime.

 

Morire giovane, morire vittima, offrire la propria vita a tale scopo: mi sembravano le mete luminose verso le quali dovevo indirizzare i miei sforzi. E il flebile lamento di Gesù agonizzante sulla croce risuonava al mio animo come l’invito ad offrirmi generosamente vittima per i fratelli.

 

Gli anni passarono e i sogni sfiorirono. Morire giovane non era più possibile e offrirsi vittima alla divina giustizia rimaneva come ideale altissimo ma sproporzionato alla viltà che si era sviluppata, connaturata al mio carattere. Ripiegare dunque su una posizione di mediocrità e contentarsi di camminare costa costa, senza azzardarsi a tentare le scalate delle vette luminose, ma troppo ripide?

 

Fu l’amore redentivo che dette la soluzione definitiva alla mia anima. L’analisi dei sentimenti del Cuore di Cristo mi portò al centro della sua anima e lì trovai che in  Lui, Verbo Incarnato, tutto era in funzione della salvezza delle anime. Per esse Egli si era incarnato ed aveva vissuto lunghi anni nel nascondimento di Nazareth; per esse si era stancato lungo i sentieri montani o pianeggianti della Palestina ed aveva predicato, moltiplicato miracoli, passato notti insonni; per esse era morto sul duro legno della Croce ed era infine risorto.

L’amore per le anime era dunque il centro dei misteri interiori della vita di Gesù. Con il Sacerdozio Egli mi aveva dato di partecipare a tali misteri creando in me la passione per la redenzione delle anime; amore redentivo in Gesù, corredentivo in me.

 

Una certezza allora sentii svilupparsi interiormente: io ero e dovevo essere solo per le anime. Anche la santità, l’acquisto delle virtù, mi sembrava che non potessero in me avere un significato completo se avessi voluto prescindere dalle anime. Dovevo anzi santificarmi per loro come Gesù aveva rivelato di se stesso: “Sanctifico me ipsum ut et ispi sint sanctificati” (Gv 17,19).

 

Non si trattava più della passione per le anime ma di un orientamento nuovo; l’amore redentivo era divenuto il centro della mia spiritualità. Il “Sitio” di Cristo era anche espressione di indicibile sofferenza, ma era soprattutto desiderio infinito di anime. Le anime dunque io dovevo cercare, trovare, amare; per esse dovevo stancarmi e, se necessario, morire. Ma non la morte o la stanchezza o la sofferenza avevano significato per me, ma le anime comprate con questi mezzi.

 

Era stato dunque solo un sogno di ingenua giovinezza quel mio attendere una morte prematura in un’offerta che mi avrebbe consacrato vittima. Gesù certo era morto vittima, ma dopo aver lavorato e pregato e insegnato. E così per me. Solo che, mentre Gesù poteva disporre liberamente di se stesso alla luce della volontà del Padre, io non dovevo disporre di me.

 

Mi tornano alla mente insistenti i gradi dell’indifferenza ignaziana: la vita o la morte, la salute o la malattia, la ricchezza o la povertà, tutto è per me indifferente.     Ma non precisamente di questo si trattava. Non era il distacco per il distacco, l’indifferenza per l’indifferenza, sia pure ispirata dal più alto amor di Dio. L’indifferenza per me nasceva dalla piena disponibilità all’azione redentiva di Gesù.

 

 

Egli continua a salvare le anime e cerca gli strumenti; richiede la mia libera collaborazione, la mia strumentalità. Io gliela dono incontrastata e lascio, anzi voglio, che Egli usi di me come più gli piace. Se vorrà farmi partecipe soprattutto della sua vita attiva, consumerò le mie forze per i fratelli; e se invece vorrà introdurmi nei misteri del silenzio di Nazareth, per essi ancora accetterò gioiosamente il mio scomparire. Mi sforzerò di salire sulla Croce, se il Signore mi chiamasse ai  misteri della passione, e accetterò la momentanea esaltazione, se questo il Signore mi preparasse. Ma sempre per le anime, giacché io devo muovermi solo nella linea della corredenzione e il mio sacerdozio deve essere essenzialmente corredentivo.


PREGHIERA

 

Non ti chiederò dunque, o dolce Gesù Redentore, una lunga vita o una brillante intelligenza; non ti supplicherò perché accresca le mie energie o mi consumi sull’altare della sofferenza, vittima di amore e di giustizia. Nulla, o Redentore delle anime, io ti domanderò, ma solo di accettare il mio intenso desiderio di disponibilità all’opera redentiva, la mia consacrazione all’amore redentivo. Ogni altra mia domanda sarebbe superflua e forse limitativa dei tuoi piani redentivi. Tu sai ciò di cui hai bisogno e io voglio solo ripeterti con S. Agostino: “Dona quod iubes et iube quod vis” (Dona quanto comandi e comanda quello che vuoi).

 

            Non dimenticare però, Signore, che anche il vivere questa consacrazione è tuo dono che a Te domando; come è tuo dono la moltiplicazione delle anime che comprendano e vivano tale consacrazione all’amore redentivo. Moltiplica tu tali anime tra i sacerdoti e le tue mistiche spose, nel popolo e tra i militanti dell’apostolato cattolico. Insegnalo Tu, a me e a tutti, che la tua sete di anime è sempre attuale e che l’opera redentiva ha ancora bisogno di anime generose. Amen.

 

                                                        da “Il Massimalismo”, n.44, novembre-dicembre 1994

            riportato da G. Giaquinta, Suscipe hanc oblationem. Il dono di una giovinezza,

                                                                     ed. Ancora, 1964, pag.156 ss.