Nella povertà di don Pino, la grandezza della Chiesa

Da sinistra, Salvatore Di Cristina e Pino Puglisi - 1959, ordinazione diaconale
Da sinistra, Salvatore Di Cristina e Pino Puglisi - 1959, ordinazione diaconale

In occasione della Visita del Papa a Palermo, Alessandra Turrisi, per le pagine di Avvenire, ha intervistato Mons. Salvatore di Cristina, Vescovo emerito di monreale, Consulente Ecclesiastico Nazionale del Movimento Pro Sanctitate, compagno di studi e di strada di Padre Pino Puglisi.

 

«Il vertice della Chiesa viene a onora­re un figlio così modesto, perfino nel vestire, vissuto nella povertà. Segno della grandezza di questo sacerdote, ma anche di una Chiesa che sa mette­re i valori al loro posto».

 È commosso monsignor Salvatore Di Cristina, 81 anni, arcivescovo emerito di Monrea­le e per diversi anni preside della Fa­coltà teologica di Sicilia. Sabato sarà accanto a papa Francesco tra i conce­lebranti principali (assieme ai cardi­nali De Giorgi, Romeo e Montenegro e agli arcivescovi Lorefice e Gristina) in quanto compagno di ordinazione presbiterale di don Pino Puglisi.

Quel ragazzino conosciuto a 16 anni sui banchi di scuola, riservato e cordiale insieme, amante delle barzellette e «innamorato» dei giovani, adesso è un beato martire della Chiesa univer­sale e, per monsignor Di Cristina, es­sergli stato amico «è davvero un privi­legio». Ordinati sacerdoti dal cardi­nale Ernesto Ruffini il 2 luglio 1960, nel santuario della Madonna dei Ri­medi, Puglisi e Di Cristina, in realtà, non si allontanarono mai. Anzi, i casi della vita li vollero quasi «in staffetta» in vari momenti del loro ministero.

 

Cosa ricorda della vostra ami­cizia?

«Per me fu un dono e una sorpresa il suo arrivo in prima liceo (terzo anno del liceo classico, ndr) in Seminario. Ci accorgemmo subito che si trattava di un buon acquisto. Pino era sorri­dente e accogliente, aveva uno sguar­do intelligente. Ci avvicinammo mol­to quando entrambi avevamo l’inca­rico di “prefettini”(ragazzi più grandi responsabili dei più piccoli, ndr) al Seminario minore. La sera ci scam­biavamo le nostre impressioni. Aveva una capacità straordinaria di stare con i ragazzi. Fummo ordinati insie­me, io quindici secondi prima di lui, così, scherzando, gli dicevo che mi doveva rispetto, perché ero il prete più anziano».

 

 

Da sacerdoti trovaste il modo per collaborare?

«Dall’ordinazione in poi io rimasi insegnare. Quando diventai gestore della scuola media, volli don Pino a insegnare matemati­ca. Durante il periodo di Godrano, negli anni Settanta, andai a trovarlo tante volte: lo ricordo con i geloni che quasi lo facevano piangere, c’era una situazione difficile in paese, quasi ostile, dovette lavorare molto e con fatica. Poi le cose cambiarono, grazie al suo impegno. Fui io a suggerire il suo nome al cardinale Salvatore Pap­palardo come mio successore al Cen­tro diocesano vocazioni e don Pino prese il mio posto pure come docente di religione al liceo classico Vittorio Emanuele II. Certe volte ci vedevamo al Baby Luna per parlare davanti a una pizza».

 

Poi l’arrivo a Brancaccio.

«Non mi parlò mai dei problemi che aveva a Brancaccio. Volle intitolare il centro al Padre nostro perché fosse chiaro che il Padre non è il “padrino”. Non era un prete antimafia, era un prete che faceva il prete sul serio, amava mol­to le persone che incontrava, aveva un atteggiamento pastorale anche nei confronti dei mafiosi. Quando si recò nei magazzini di via Hazon, quando tenne la famosa omelia in cui invitava i responsabili degli attentati a incontrarlo, non lo fece per sfidare i mafiosi, ma per avviare un confronto, un dialogo, per fare breccia».

 

Come apprese dell’omicidio?

«Lo seppi di notte, mi chiamò don Pie­tro Magro e rimasi di ghiaccio. All’al­ba, andai al Policlinico, in medicina legale, ero inebetito. Non potevo cre­dere che fosse finita così. È un martire cristiano perché prete, che si era già consegnato al Signore. Leggendo i suoi scritti si capisce che si aspettava davvero di potere essere ucciso. Ha messo in gioco la sua vita per afferma­re che ciò che è contro il Vangelo non può essere in nessun modo, anche so­lo col silenzio, avallato».

 

Don Puglisi ora è martire. Le ca­pita di rivolgersi a lui?

 

«Nella mia cappellina, in casa, ho una sua reliquia e una sua immagine. Spesso mi intrattengo con Pino: mi faccio una lunga chiacchierata con lui come ai vecchi tempi...». 

 

fonte: Avvenire