Festa della Famiglia con la Fondazione "Il Cuore in una Goccia"

Domenica 16 giugno nel Centro Operativo di Roma abbiamo celebrato la memoria del nostro fondatore mons. Giaquinta, nel 25° anniversario della sua morte, riuniti nella Festa della Famiglia. Sono stati con noi gli amici della Fondazione “Il cuore in una goccia” che operano a sostegno della vita nascente facendo divulgazione scientifica, portando la testimonianza delle famiglie che hanno affrontato una gravidanza difficile e promuovendo ogni attività con la preghiera. Tre pilastri operativi: “Scienza, Famiglia, Fede”. Abbiamo ascoltato da loro il racconto di una vera santità vissuta, fatta di accoglienza del dono di Dio, andando controcorrente nella cultura dominante che papa Francesco definisce “cultura dello scarto”.

La Fondazione è stata co-organizzatrice con il Pontificio Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita del convegno internazionale “Yes to life” sulle terapie fetali.

 

Il Movimento Pro Sanctitate di Roma ha scelto di celebrare la sua “Festa della Famiglia” incontrando le famiglie della Fondazione “Il Cuore in una goccia onlus”. Nel corso di una mattinata che si può definire avvincente oltre che interessante, abbiamo ascoltato testimonianze e considerazioni sul tema centrale cui la Fondazione è dedicata: “Difesa della Vita nascente e tutela della vita materna e fetale”.

(https://www.ilcuoreinunagoccia.com/#)

 

Registriamo per la storia che in nessun momento si sono levate grida scomposte con richieste di tornare a regimi giuridici diversi da quelli vigenti.

 

Non ci sarebbe quindi stato motivo, per chiunque avesse ascoltato, di urlare con riflesso pavloviano, che “la 194 non si tocca”. Semmai, a qualcuno come a chi scrive è venuto in mente, ascoltando, che la 194 sarebbe il caso di applicarla integralmente, a partire dal suo primo capoverso che recita “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”.

Ecco, è innegabile la tendenza delle strutture sanitarie pubbliche ad offrire l’aborto come unica soluzione in presenza di gravidanze problematiche: anzi, anche in caso di gravidanze solo molto parzialmente problematiche, almeno alla luce di una casistica scientificamente accettabile. Sono proprio le strutture pubbliche, nella narrazione che ci è stata offerta, a dare per scontato, con modalità talvolta sinistre, che ciò che conta sia la eliminazione del problema, cioè del feto. A ben pensarci, tale contesto sembra stridere di fronte alla constatazione che la interruzione volontaria della gravidanza trova tuttora, con percentuali larghissime, una maggioritaria obiezione di coscienza tra i medici.

Allora, una spiegazione razionale del fenomeno deve ricercarsi nelle scelte gestionali delle strutture sanitarie che sembrano orientate alla scelta abortiva dal timore delle conseguenze che un più aperto ventaglio di possibilità offerte alla gestante possa poi creare alla struttura stessa; problemi di vario genere: fra richieste di risarcimento danni – non va dimenticato, mai, il costante aumento delle richieste di risarcimento avanzate talvolta per i motivi più futili da un crescente numero di presunti danneggiati – e magari più consistenti impegni di spesa per le cure: argomento, questo, da tenere d’occhio, eccome.

E qui si deve essere chiari: anche in presenza di patologie fetali almeno parzialmente curabili, magari, ma non necessariamente, in utero; anche in presenza di patologie materne pericolose e con statistiche sfavorevoli, sì, ma non tali da rendere di fatto impossibile uno scioglimento positivo, anche in questi casi si preferisce puntare dritti sull’aborto, ritenuto più sicuro. E davvero lo è, dal punto di vista cui si accennava, delle strutture sanitarie: costituisce infatti una “soluzione” definitiva e priva di rischi. Tombale, per così dire.

E certamente, se si parte dalla determinazione di “evitare complicazioni” anziché da quello di “tutelare la vita umana dal suo inizio”, il fenomeno trova una sua spiegazione razionale: che però non coincide con il dettato legislativo in materia, a partire proprio dalla per tanti versi deprecabile legge 194/78, come si è visto.

 

 

Ascoltando le testimonianze delle amiche della Fondazione si è avuta insomma la sensazione che anche di fronte a questi aspetti prevalga una “politica gestionale” fondata sulla paura: lasciamo alla intelligenza dei lettori l’evidente analogia tra un comportamento siffatto e quello che viene applicato – o si vorrebbe applicare, per fortuna non senza resistenze anche massicce – di fronte ad altre emergenze sociali certamente rischiose; anche qui, infatti, per paura si preferisce, anziché accettare una sfida in modo razionale, moderato e senza urlati estremismi, rimuovere “semplicemente” il problema: non da noi prego, not in my backyard. Al massimo, qualche promessa come “aiutiamoli a casa loro”. Il diritto internazionale? Chisseneimporta! La tutela della vita umana dal suo inizio? Ancora, chisseneimporta. Quanti chisseneimporta fa pronunciare la paura.

Ci si domanda se non si potrebbe affrontare anche il problema delle gravidanze problematiche “aiutandole a casa loro”, vale a dire in quella casa che è l’utero materno, senza offrire come comoda ed esclusiva soluzione la rimozione degli interessati, cioè dei bambini. È ironica davvero, se non fosse anche tragica, la sollecitudine dello Stato per questa categoria dei bimbi non ancora nati: minacciose fotografie ammoniscono i fumatori, dai pacchetti di sigarette, che “il fumo può uccidere un bambino nel grembo materno”. Si direbbe che anche le aziende sanitarie possano farlo, anzi lo fanno. A quanto sembra, non solo lo fanno, ma incoraggiano a farlo. Capite? Non è che di fronte alla chiara volontà della madre si piegano alla triste bisogna: no no, sono anzi loro che danno per scontato che quella sia la soluzione. E infatti…

 

Così non è stato nel caso delle testimonianze che abbiamo ascoltato ma ciò a dispetto, si direbbe, di un buon numero di ponzi pilati ansiosi di lavarsi le mani mandando a morte qualcuno. E ancora: se c’è qualcosa che è emerso con forza durante l’interessante, anzi avvincente mattinata con la Fondazione, è questo: che nelle strutture pubbliche il rispetto verso la dignità della donna, il rispetto per la sua libera scelta, che pure si proclama di voler tutelare proprio con la libertà di aborto, non c’è. Anzi, siamo più giusti e non scadiamo anche noi nei rilessi pavloviani: diciamo che spesso non c’è, e certamente non c’è stato in questi casi, e verosimilmente in tanti altri in cui le donne non hanno avuto la fortuna di imbattersi in questa meritevole Fondazione. Perché qui si trattava, le abbiamo viste, le abbiamo ascoltate, di donne con forti motivazioni morali, acculturate: figuriamoci, con poco spreco di fantasia, cosa possa mai accadere a donne meno attrezzate sul piano culturale e psicologico…. e sia lecito anche qui, a chiosa, ricordare che sempre la legge 194 (non si tocca!) afferma a chiare lettere che lo Stato “riconosce il valore sociale della maternità” e deve “contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”.

 

Una donna, - non ne ricordo il nome, ma non importa, basti dire che è una donna: che bella parola, questa, lo dico da essere umano, da maschio, da cristiano, che bella parola è “donna” - ci ha raccontato di avere fermato alla lettera un operatore mentre quello senza neanche consultarla stava già prendendo appuntamento per l’aborto! Da aggiungere, per comodità del lettore, che questa stessa donna era stata in precedenza sottoposta dal padre della creatura che portava in grembo alla gentile scelta fra l’aborto e la sua sparizione. A dispetto del gentile genitore di sesso maschile, a dispetto dell’operatore, e delle presunte certezze sull’esito negativo della gravidanza, il bambino sgambettava tranquillo sui praticelli di Largo Arbe. Sì, che bella parola è donna, che grande, grandissima cosa è la dignità della donna!

 

 

Alberto Hermanin