Giornata della santificazione universale: la sfida della fraternità

Dalla Lumen gentium alla Gaudete et exsultate c’è una distanza temporale di 54 anni. Tanto tempo? Poco? Più che fare retoriche valutazioni sui tempi più o meno adeguati, è opportuno cogliere la bellezza del dono dello Spirito, che attraverso la parola di Papa Francesco, riconsegna alla Chiesa del terzo millennio e affida alle nostre mani uno dei temi più affascinanti e suggestivi proposti dal concilio Vaticano II: la santità come vocazione universale.

Dall’uscita dell’esortazione apostolica di Papa Francesco, si sono moltiplicate pubblicazioni, conferenze e iniziative di ogni genere per diffonderne il contenuto, ma soprattutto per far sì che la “provocazione” della santità arrivi veramente al cuore di ogni uomo e di ogni donna. “Santità” è una parola semplice, ma accostata al termine “vocazione” e all’aggettivo “universale” acquista uno spessore che ha la stessa estensione dell’amore di Dio: infinito.

La santità ha a che fare con il Vangelo e ogni volta che ci troviamo davanti a una pagina del Vangelo ci chiediamo subito (o quasi): “Ma come faccio a viverlo oggi?”. Probabilmente, molto spesso ci si chiede lo stesso a proposito della santità, e così cerchiamo di immaginare percorsi, strade, cammini che ci permettano di concretizzare, di far diventare vita questo dono di Dio.

Nella sua esortazione apostolica sulla santità, la lettera Gaudete et exsultate, Papa Francesco cita un passaggio del concilio che richiama alla dimensione ecclesiale e comunitaria della salvezza, come a una realtà costitutiva, intrinseca, non accidentale: «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (lg 9). Perciò nessuno viene salvato da solo, nessuno si santifica senza portare con sé quelli che Gesù ci ha insegnato a chiamare “fratelli”.

La chiamata alla santità, coniugata con la fraternità, ci interpella e scuote una visione accomodata, addomesticata, spiritualizzata della vita cristiana. La fraternità, dunque come una possibile via da percorrere per vivere la santità, che permette di rendere concreta la chiamata di Dio e di dare alla santità quel respiro ecclesiale, comunitario, di popolo che la rende una forza capace di rinnovare il mondo e dare alla società, alle relazioni personali un volto sempre più umano (cfr. lg 41).

Il servo di Dio Guglielmo Giaquinta, fondatore del Movimento Pro Sanctitate, ha avuto parole illuminate sul binomio santità-fraternità; nella sua azione di promotore della vocazione universale alla santità, ha colto come il dato teologico di essere figli di Dio e fratelli in Cristo può avere delle straordinarie conseguenze, sulla vita personale, sulle relazioni, familiari e non solo, sulle dinamiche sociali. Vivere la santità significa accogliere la potenza dinamica del Vangelo, lasciare che il piccolo seme della vita di Dio posto nel cuore dell’uomo nel Battesimo, cresca, si sviluppi, raggiunga la sua pienezza giorno dopo giorno.

La santità, afferma Giaquinta, declinata nella fraternità, «abbraccia tutti i nostri rapporti sociali facendo in modo che essi siano espressione e mezzo della comune vocazione alla santità»: è un’intuizione da seguire, da approfondire, da far sedimentare in profondità nel cuore, per poterne cogliere la forza trasformante, capace di agire positivamente sulle radici del male. Il servo di Dio suggerisce, con grande convinzione, di provare a diventare gli apostoli della fraternità spirituale, in tutti gli ambienti, a tutti i livelli, con tutti i mezzi, e, dice, «constateremo come ciò di cui oggi c’è realmente bisogno è il ritrovare tra noi una reale, generosa, comprensiva fraternità e il dare un contenuto profondo e sostanzioso al nostro rapporto con Dio».

Il cammino della santità è una strada che parte da Cristo e porta a Cristo. Parte da Cristo, dal mistero della sua incarnazione, venuto per rivelarci l’amore del Padre, renderci figli in Lui, il Figlio amato; porta a Cristo, perché la vita del discepolo di Cristo è diventare sempre più simili al maestro. Non è una conformazione esteriore, superficiale, ma una trasformazione che lo Spirito opera dentro ciascuno, di giorno in giorno, finché tutti arriviamo alla pienezza di Cristo (cfr. Ef 4, 16). E il passaggio obbligato sono i fratelli, soprattutto i poveri e i sofferenti nei quali Cristo si nasconde e ci raggiunge. È quanto ci ricorda Papa Francesco, richiamando la parabola del giudizio finale del vangelo di Matteo non solo quale regola di comportamento, ma come rivelazione del «cuore stesso di Cristo, dei suoi sentimenti e delle sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi» (ge 96).

Si comincia dalle piccole cose, dalle occasioni che la vita quotidiana presenta: «Trattarsi come fratelli, cercare di ristabilire la fraternità quando sia stata lesa o sia in pericolo, creare le condizioni sociali perché essa possa essere vissuta...» (Giaquinta). Celebrare la Giornata della santificazione universale il 1° novembre significa chiedere a Dio con forza che il fiume di grazia che sgorga da Lui ci travolga, ci trasformi, invada le nostre strade; pregare perché la santità non sia solo un bel tema sul quale riflettere, ma una chiave che apre gli occhi e fa scoprire che non esistono più persone sconosciute, una lente attraverso la quale volti senza nome diventano “fratelli”.

Accogliere la sfida della fraterna santità significa correre il rischio di mettere in subbuglio la realtà nella quale viviamo, diventare portatori e attuatori della rivoluzione delle beatitudini, vivere in pienezza la missione che nasce dalla nostra vocazione di figli nel Figlio. Solo quando non ci accontentiamo di una meta più bassa della santità possiamo essere discepoli credibili, testimoni di un incontro che ha dato alla nostra vita una direzione precisa che ci conduce alla nostra piena felicità. Perché, infine, «non vi è che una sola tristezza: non essere santi» (Léon Bloy), santi insieme, con i fratelli e per i fratelli.

 

Cristina Parasiliti

 

fonte: L'Osservatore Romano