Equilibri in tempi di crisi: per una spiritualità del precariato

A cura di Alessandra Privitera

 

Cosa fare se le emergenze, sanitarie e non, rischiano di compromettere la nostra routine e ci costringono a vivere quasi sospesi, senza programmi o progetti per un futuro pressoché immediato? Ciò che state per leggere non vuole essere certamente uno studio scientifico o esaustivo in grado di teorizzare la legittimità della crisi, o la sua opportunità da un punto di vista teologico, spirituale o filosofico, ma semplicemente delle riflessioni a voce alta su dei sentimenti o atteggiamenti che a tutti noi, in quanto uomini, può capitare di attraversare, a prescindere da quale sia il nome di ciò che ci è dato di vivere, che sia il Covid-19 o un evento che sconvolge la nostra vita personale e/o familiare.

 

La differenza sta nel fatto che in questo preciso tempo, un’emergenza ci accomuna, un tempo di sospensione, volontaria o non, è dato a tutti… Ci ripetiamo: “Vedrai, prima o poi passa!” e sicuramente nel dircelo ce lo auguriamo, ma mentre sarà passato, che ne sarà stato di noi? Come avremo impiegato questo tempo, qualitativamente e quantitativamente diverso per ciascuno di noi? Che ne sarà stato della nostra umanità, delle nostre relazioni, dei nostri rapporti se saranno anche essi stati contagiati irrimediabilmente dal virus della diffidenza e della paura? Possibile che ci sia un tempo, per quanto precario, che possiamo definire vuoto di senso, destinato solo a essere dimenticato, come si fa di un brutto sogno? Se per ipotesi, questo tempo, che anche economicamente sta mettendo alla prova il nostro territorio italiano e non solo, fosse qualcosa di irripetibile, di cui siamo chiamati a fare memoria e a custodire con sapienza? Non mi addentro su questioni di carattere storico o sociologico, perché non è certo il mio campo, ma  a livello personale, familiare, in quel range di azione che ognuno di noi ha a disposizione, stiamo vivendo questo tempo o lo stiamo subendo, lasciando semplicemente che ci scorra addosso, lasciandoci un senso di scoraggiamento, tristezza, delusione e passività? Forse, mi dico, è ora di sfatare il mito che nella vita per riuscire bisogna sapersi  organizzare bene, aver tutto programmato, etc…

 

Non mi fraintendete, non che non siano cose importanti queste, ma forse, le emergenze ci ricordano innanzitutto che la vita è adesso, che ogni giorno non è solo un tassello del puzzle più grande, ma ha in se stesso un significato che vale la pena vivere in pienezza, senza sconti, senza attesa che passi la crisi, perché forse la vera crisi è la routine, la forza dell’abitudine che trascina i nostri passi e quando arriva uno scossa del genere e sovverte i nostri equilibri, tutto rischia di andare in frantumi…

 

Come restare in equilibrio dunque anche quando del proprio domani si può dire ben poco?

 

Io oggi credo che la forza risieda nelle piccole cose, perché le cose preziose sono anche piccole e possono costellare come fulgide luci, il nostro universo quotidiano, se noi glielo permettiamo.

 

Io credo che la forza oggi sia lasciare che il tempo scorra su di noi non come crònos, ma come kairòs, non solo perché è grazia ogni istante che ci viene dato in aggiunta, ma soprattutto perché ciascuno di noi può riscoprire un tempo qualitativamente altro, un tempo che rallenta, che misura la vita e che a volte bruscamente le conferisce una battuta d’arresto, costringendo tutti a rivedere la direzione in cui la stessa vita va avanti.

 

Per i credenti, poi, questo non può mai essere il tempo della sconfitta o dell’ansia, piuttosto il tempo, come la chiama Peguy, di “bambina Speranza, bambina da nulla che traversa i mondi”; proprio con le sue parole vorrei concludere la mia riflessione:

 

“Per non amare il proprio prossimo, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie. Dinanzi a tanto grido di miseria.

Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.

È la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile (...)

E quel che è facile e istintivo è disperare ed è la grande tentazione.

È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è.
E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è.
E lei, lei ama ciò che sarà.

La Fede vede ciò che è.
Nel Tempo e nell'Eternità.
La Speranza vede ciò che sarà.
Nel tempo e per l'eternità.

La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.

Nel futuro del tempo e dell'eternità”.

 

 

                                    (C. Peguy, Il portico del mistero della seconda virtù)