Narrare Dio con la ragione

Una impresa ardua nei tempi e modi quali quelli che viviamo, e in ogni tempo. La domanda che Dio pone a Giobbe “Conosci tu le leggi del cielo o ne applichi le norme sulla terra?” (Gb 38, 33) propone drammaticamente l’insufficienza umana: come possiamo narrare Dio con la ragione se esiste l’ingiustizia del male, se Dio stesso sembra volersi negare all’indagine razionale e scientifica, se le sempre maggiori capacità intellettive dell’uomo sembrano lasciarlo più ansioso e solitario che mai?

Sola in un universo che si presume affollato l’umanità continua ad essere alla ricerca di un senso che “razionalizzi” le contraddizioni del vivere. Contraddizioni individuali, sociali, addirittura biologiche, se dobbiamo dar credito a quanto con insistenza ci viene proposto da una ossessiva campagna mediatica non priva di ricadute magari anche giuridiche. La domanda di Dio a Giobbe suona quasi beffarda, se si considera che almeno 2500 anni dopo essere stata scritta, essa conserva intatta la sua attualità intrinseca: tutti i nostri accresciuti poteri di intelligenza delle cose e di manipolazione della creazione non ci hanno affatto portato più vicini a “conoscere le leggi del cielo” e meno che mai ad applicarle sulla terra.

La risposta dei cristiani alle contraddizioni ha il nome di una Persona, quella del Signore Gesù Cristo, in cui sono state “ricapitolate tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1, 10). Ma è razionale questo annuncio? Non si deve avere paura di affrontare questa domanda che il “mondo” (Gv 15, 19) ci lancia addosso da duemila anni, per lo più rifiutandosi di ascoltare la risposta: “Ti sentiremo su questo un’altra volta” (At 17, 32).

Rifiuto dell’ascolto è rifiuto della meditazione, in realtà rifiuto di affrontare le contraddizioni dell’esistenza preferendo la via di fuga della volontà di potenza che diventa ideologia di se stessa, e finisce a contraddire quanto proclama essere il suo imperativo categorico, lo spirito razionale e scientifico. A tale proposito non un poeta, ma un uomo di scienza, non un cristiano ma un ateo ha osservato: “Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere neanche uno scienziato” (Albert Einstein, citato in Francesco Saveri, Dalla scienza alla fede, Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi, 1959, p. 103).

Soffermarsi nella meditazione sul mistero è quindi un atto di profonda razionalità, anzi il frutto ultimo dell’utilizzo di quella facoltà che è stata specialmente concessa all’uomo. Il passo ulteriore, “la fede, che si fonda sulla testimonianza di Dio e si avvale dell’aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente di un ordine diverso da quello della conoscenza filosofica…la filosofia e le scienze spaziano nell’ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la «pienezza di grazia e di verità» (cfr Gv 1, 14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo”… Ma “oltre alla conoscenza propria della ragione umana, capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che è peculiare della fede” (Fides et Ratio, Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, 1998).

Ecco, conoscere è forse il verbo chiave del tema che ci è posto, quello di “Narrare Dio”. Possiamo narrarlo razionalmente perché lo conosciamo per come Lui si è rivelato: “proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. (Gv 1, 18). Narrando Lui, noi attingiamo in realtà il vertice assoluto della razionalità, anzi la fonte da cui la nostra razionalità naturale discende, la Verità stessa: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6). Narrare Lui con la nostra vita, “con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze” (Dt 6, 5); in un certo senso si potrebbe dire “fare la verità”.

Alberto Hermanin


fonte Aggancio